Gioco quindi sono!

    

Il gioco a scuola

    

Quanto si gioca a scuola? Poco, pochissimo. Spesso le lezioni procedono stancamente e nonostante gli sforzi degli insegnanti, studenti e alunni vivacchiano sbadigliando, non partecipano, si annoiano. Di chi è la colpa? Di professori e maestri troppo pedanti? Dei ragazzi svogliati? Oppure di una didattica indietro con i tempi e soprattutto poco giocosa? Quest’ultima è una domanda retorica con una risposta già implicita: sì, a scuola si gioca poco. Eppure psicologi, psicopedagogisti e sociologi da secoli continuano a predicare una maggiore applicazione dell’attività ludica nell’apprendimento.   

Gioco quindi sono 


   

Provate ad andare a rileggere i manuali di filosofia e di storia dell’educazione, rimarrete sorpresi dalla presenza del gioco nell’educazione. Ne discutevano i Presocratici, ne parlava Platone, convinto della sua importanza, e Aristotele. Lo consigliava Quintiliano e persino nei secoli più bui del primo Medioevo, l’attività ludica veniva guardata con grande interesse. Per non parlare poi del Rinascimento e di Filippo Neri con il suo oratorio molto orientato agli interessi dei bambini e quindi al gioco.
Per arrivare, saltando secoli e dimenticando decine di grandi pensatori, fino a Johan Huizinga che, con Homo ludens, dimostrò che l’uomo è un animale giocoso e che tutto il suo mondo ha carattere ludico.
Giocare quindi per essere, per mettere a frutto le proprie potenzialità in un ambiente privo dai rischi del reale. Molti etologi hanno studiato l’importanza del gioco nei primati. Per anni hanno osservato il comportamento dei leoni e dei gorilla e si sono accorti che i cuccioli incapaci o impossibilitati a giocare restano immaturi e da adulti non sono capaci di affrontare le insidie della natura. Quindi sono destinati a morire.
Il gioco nei primati è, infatti, una sorta di allenamento, di prova generale per affrontare la realtà. Il piccolo leone gioca con la coda della mamma. Poi la leonessa offre al cucciolo una piccola preda tramortita. Infine lo invita con sé a caccia. Il piccolo impara, tranquillo, senza stress. E un domani sarà capace di affrontare la vita reale, di cacciare ed evitare il pericolo.
 

Giocare per diventare grandi 

   

    

L’uomo non si discosta molto da questo modello di apprendimento naturale. Secondo alcuni studi effettuati negli Stati Uniti negli anni Sessanta, i bambini impossibilitati a giocare sono meno intelligenti, hanno poco senso pratico e avversione verso i propri simili. A Boston, dal 1965 al 1968, lo psicologo Levenstein e la sua équipe furono protagonisti di un progetto rivoluzionario. Una serie di ricercatori dell’università insegnarono a un gruppo di genitori dei sobborghi di Boston a giocare con i propri figli o comunque a incentivare la loro propensione al gioco. Il risultato fu sorprendente: i bambini che avevano partecipato al programma svilupparono un miglior adattamento e una migliore capacità di risolvere i problemi, anche di carattere intellettuale.   

Lo scatolone giocoso

Il computer di oggi, quello multimediale, ha una natura ludica. Suona, fa scorrere immagini, consente di creare mondi come se si plasmasse dell’argilla fatta di bit (è quella che viene chiamata manipolazione cognitiva), si trasforma in un teatrino, oppure in un telefono, e ancora in un bosco da esplorare. E’ così giocoso, il computer, che i bambini riescono ad adattarvisi in modo naturale. A volte restiamo impressionati dalle capacità di un piccolo di 3 o 4 anni di muovere il mouse o il joystick ed entrare in sintonia con le macchine. E tutto ciò nonostante la assoluta inadeguatezza di dispositivi come tastiera e mouse, interfacce estremamente innaturali.
   

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